Ho letto:L’étranger di Albert Camus

I lettori francesi qualche anno fa l’hanno votato come miglior libro del secolo (scorso). Sicuramente queste classifiche valgono quel che valgono. Senz’altro si tratta di un libro formidabile, un “classico” nel senso che qualunque interpretazione o chiave di lettura non esaurisce la potenza espressiva del testo.

Albert CamusCome può una storia raccontare con efficacia l’assoluta mancanza di senso che Albert Camus scorge in tutte le cose umane? Come si può romanzare la mancanza di fiato, il soffocamento endemico di quando si cerca una ragione e non si trova nulla? Il racconto comincia con la morte della madre, un incipit che è divenuto famoso “Aujourd’hui, maman est morte»; prosegue scandito dall’esercizio della violenza indifferente, dallo sferragliare inutile delle istituzioni e dalla presenza incombente di un cielo capace solo di opprimere con il calore e abbagliare con la luce. Resta la ribellione finale a fingere se non un senso, almeno una plausibile reazione alla insensatezza che pervade la nostra vita.

Ho sempre amato Hemingway, ammantato di vitalismo ma in realtà rassegnato allo stesso esito perdente. Anche nel caso dello scrittore americano l’unica possibile redenzione è nella dignità del combattere. Il destino di ogni uomo è che “the winner takes nothing”. Ma resta

qualcosa per cui vale la pena vivere. Va cercato nella virilità della lotta. (gli amanti di Hemingway avranno apprezzato lo stile paratattico, conciso e spezzato, Hemingwayano appunto, di quest’ultimo paragrafo)

Domanda: Albert e Ernest vedrebbero le cose diversamente se vivessero i nostri giorni, resi così affascinanti e eccitanti dalle magnifiche sorti progressive della tecnologia, che ad ogni giro della strada inventa nuove possibilità per cui, apparentemente, vale la pena stare al mondo?

Forse non è così. Forse dobbiamo convenire e accettarlo: Internet, il digitale, Google Glass e smart watch, apps e tablet, reti con e senza fili, piattaforme e oggetti intelligenti, giga e terabyte, sono tutti giocattoli stupendi, strumenti meravigliosamente efficaci, rendono migliore la nostra vita, ma non ne spiegano il senso e non la redimono. È eccitante aprire il pacchetto regalo dell’ultimo device, ma l’eccitazione è una emozione: bella quanto effimera.

Bill Gates, uno dei grandi tecnocrati della nostra era, sta dedicando la sua vita e una parte del suo patrimonio a risolvere i grandi problemi dell’umanità e a lui va tutta la mia ammirazione e approvazione. L’approccio è tecnocraticernest-m-hemingwayo, appunto. Una tecnica e una organizzazione superiore possono risolvere i peggiori problemi, è tutta una questione di chiarezza di intenti, sforzo adeguato all’obiettivo e approccio ingegneristico. Io simpatizzo, se non altro per la nobiltà dell’obiettivo perché il personaggio non ha tradizione di simpatia (come molti grandi del digitale, ma su questo scriverò un’altra volta). In ogni caso tutti speriamo che funzioni. Ma non si tratta in fondo dell’ennesima edizione dell’ottimismo illuminista?

Forse questo post è troppo serio, rischia di suonare pretenzioso e di scoraggiare chi avesse intenzione di leggere il libro, che invece merita; mi dispiace, ma dopo una lettura del genere non me la sento di cavarmela con un tweet.

In questi giorni che ci accompagnano al Natale, ho il dubbio che la tecnologia possa migliorare il mondo, ma solo nei suoi aspetti secondari. E in ogni caso non ci può dire perché ci stiamo e perché dovremmo starci. Ho il dubbio che ci stiamo comportando come indiani di fronte a pettini, specchietti e perline colorate. Abbagliati dal luccichio del microprocessore.

 

Photo credits: Goodreads, poetryfoundation.org

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