Ho letto: La terra del blues

Il delta del Mississippi (quattro esse, due pi), contrariamente a quello che suggerisce la parola, non corrisponde all’estuario del fiume, ma è la vasta pianura alluvionale che si stende a ovest del maestoso corso d’acqua americano. Un tempo terra di paludi, foreste, orsi e pantere, fu conquistata all’agricoltura con il lavoro degli schiavi provenienti dall’Africa, che la ripulirono, la bonificarono, la coltivarono e eressero l’imponente argine che ancora oggi impedisce al Mississippi di inondare il suolo meravigliosamente fertile della piana.

Alan Lomax with man

Gli schiavi portarono dall’Africa la propria musica: polifonica, sincopata, basata sulla poliritmia (ritmi diversi che si intrecciano tra di loro) e sull’alternanza tra la voce solista e la partecipazione delle altre persone, che rispondendo al richiamo del solista commentano, armonizzano, sottolineano, in un equilibrio magico tra la libertà del contributo di ciascuno e l’armonia complessiva del coro. Questa musica si combinò con strumenti e modi del folklore europeo per dare vita ai generi musicali moderni. In particolare diede vita al blues, che poi sbocciò nel rock’n’roll, Chuck Berry, Little Richard, Elvis; il rock, e tutto il resto. Il blues è la radice, solida e sempre viva, su cui poggia molta della musica dell’ultimo secolo, dal rock al pop all’hip hop al soul e così via; oserei dire, il blues è alla base della parte migliore della musica moderna.

Ora spostiamoci al 7 febbraio del 1964, quando il sottoscritto era al mondo da un mese circa. I Beatles atterrano a New York per la loro prima tournée americana, assaliti da folle di fan scatenate, un fenomeno irripetibile ai nostri giorni, fatti di entusiasmi tiepidi per star usa e getta. Nella prima conferenza stampa un giornalista domanda loro cosa hanno voglia di vedere, già che sono per la prima volta oltre oceano. I 4 Fab rispondono immediatamente: “Beh, vorremmo visitare Muddy Waters e Bo Diddley”. “Dove si trovano questi posti?” insiste il reporter. I Beatles ridono: non sono città … ma musicisti. L’America ha dimenticato i musicisti blues, se mai li ha notati, relegati come sono alle classifiche di dischi di “Musica etnica”, i race records.  Se mai li ha notati, apppunto. Blind Willie Johnson, uno dei più grandi talenti della chitarra slide, muore di stenti dopo mesi in cui ha abitato tra le rovine della sua casa bruciata, troppo povero per permettersi altro, rifiutato dall’ospedale in cui è stato condotto dai vicini. Rimangono di lui 30 tracce mal registrate, che ne sanciscono la grandezza ma che non permettono a chi vorrebbe imitarlo, gente come Ry Cooder per intenderci, di capire come potesse creare le sue magiche note. Troppo impastato il suono, totale assenza di documentazione fotografica per capire posizioni e diteggiatura. La sua “Dark was the night” è uno dei pezzi musicali affidati alla missione del Voyager, espressione della solitudine che l’uomo deve affrontare nel corso della propria vita. Se mai la navicella verrà intercettata dagli alieni, e se mai esseri di altri pianeti verranno a chiederci di conoscere questo straordinario musicista, faremo una figura di poco migliore di quella che fece il giornalista con le pietre che rotolano  i quattro di Liverpool.

Quando dunque i ragazzi della British Invasion, i Rolling Stones, i Beatles, Eric Clapton e compagnia, attraversano l’oceano e all’apice della popolarità confessano la loro adorazione per questi artisti dimenticati, i musicisti blues vengono riscoperti e rintracciati. Mississipi John Hurt è tornato a lavorare nei campi,  Muddy Waters vivacchia a Chicago, Leadbelly passa da una prigione all’altra. Diventano noti, anche famosi, fanno tournée in europa, incidono la loro musica. I giovani musicisti d’oltre Atlantico si sono abbeverati a questa musica affascinante, hanno tenuto viva la fiammella del blues, la rendono popolare e permettono che ispiri il corso potente della musica rock.

Da dove vengono queste registrazioni? Chi ha scoperto, censito, registrato questi artisti straordinari sottraendoli all’oblio delle feste di paese e delle esibizioni per strada? Alan Lomax, texano, figlio d’arte, in missione negli stati del sud per conto della biblioteca del Congresso di Washington, ha girato il delta e le zone limitrofe nei primi decenni del secolo scorso, cercando nei campi, nelle chiese, per la strada e nei bordelli musicisti sconosciuti o di stretta fama locale, artisti formidabili che sono poi diventati famosi grazie alla storia che ho velocemente raccontato.

La terra del blues” è il racconto di quegli anni, delle visite nei penitenziari per registrare i canti che ritmano il lavoro dei detenuti, delle sessioni nei retrobottega, delle partecipazioni alle funzioni religiose e alle feste di piazza, delle interviste e dei cori improvvisati nei negozi di barbiere. Tra caldo soffocante, aggressiva ostilità della polizia locale, diffidenza dei neri davanti a quel bianco apparentemente amichevole. Il blues nasce dalla società oppressiva, tra schiavismo, segregazione e razzismo, dando possibilità di esprimersi a chi è costretto sempre ad abbassare la testa, a comportarsi da negro buono e stupido, a sopravvivere solo grazie alla propria fatica fisica. La storia della sofferenza di un popolo intero, che si sublima nell’espressione artistica.

Alan Lomax gira con un apparecchio di registrazione che gli permette di raccogliere una documentazione impareggiabile e irripetibile per quantità e valore. Nei primi anni utilizza una macchina che pesa più di 200 chili e che occupa tutto il retro dell’automobile. Ci vogliono quattro persone per scaricarla, e incide dischi di alluminio e di acetato che non potremmo definire decisamente HI-FI. Con il passare degli anni Alan può disporre di apparecchi più comodi, leggeri, che permettono una maggiore qualità e una maggiore durata della registrazione.

Oggi chiunque può permettersi l’allestimento di uno studio casalingo di qualità semiprofessionale. Basta qualche metro quadrato a disposizione, un PC di media potenza e poche centinaia di euro per microfono, scheda esterna, software DAW. Si registra, è il boom dell’home recording, la produzione musicale casalinga di qualità semi-professionale. Di conseguenza, la musica è esplosa. O forse è riesplosa. Nella terra del blues, per fare musica bastavano uno strumento e l’abilità dell’artista. Tanto è sufficiente per produrre capolavori. I musicisti si conoscevano, imparavano l’uno dall’altra, elaboravano le proprie composizioni sulla base di canzoni sentite da altri. Era una musica di popolo, contraddistinta da forti individualità che però si alimentavano al fiume della musica che scorreva introno a loro. Ogni pezzo, ogni riff, ogni frase riuscita veniva ripresa, reinterpretata, arricchita, stilizzata. E il blues diventava sempre più potente.

E’ poi seguito un lungo periodo in cui la musica è diventata un fenomeno mainstream, di massa. Per produrla e diffonderla servivano capitali ingenti. Costava registrarla, produrla, distribuirla. Questo ha dato vita a un’industria verticale, pochi artisti che parlavano a un pubblico vastissimo, l’hit parade, la top ten, le adunate oceaniche a Central Park. Un mass media in tutto e per tutto, pochi che parlano e molti che ascoltano. Una canzone veniva fissata sul vinile, protetta dal copyright, eseguita pari pari ai concerti, cristallizzata in un archetipo. Messa sotto formalina, divelta dalle radici della musica popolare.

Poi arrivano l’home recording e i social network. Questi ultimi nascono sulla musica, anche se ce lo siamo dimenticati. MySpace da lì è nato, e lì è tornato dopo avere perduto la battaglia con Facebook. La musica è uno dei temi top di YouTube. SoundCloud raccoglie 250.000 musicisti dilettanti; qualche genio, molti buoni musicisti, una maggioranza di mediocri, ma ognuno di loro a aggiungere la propria voce, a elaborare idee, diffonderle, contaminarle. Nello stesso modo in cui i musicisti blues si contaminavano a vicenda, ciascuno di loro a dare il proprio irripetibile tocco personale a un movimento più grande; nello stesso modo in cui i cori spiritual o i canti delle prigioni nascono dalla dialettica tra il conduttore e coro, armonia di voci contrapposte ma ciascuna dotata di una sua individualità; così la musica di oggi si tesse di reprise, remix, playlist, mash-up, cover, duetti e collaborazioni: al di là del gergo, ciascuno si ispira agli altri, riprende quello che gli piace aggiungendo qualcosa di suo, esprime la sua voce personale all’interno di un coro più ampio. I grandi musicisti e i dilettanti. Gli esiti, quelli artistici, sono forse ancora insoddisfacenti. I mezzi tecnologici ci hanno restituito un protagonismo musicale che avevamo perso, ma dobbiamo ancora imparare come usarli al meglio. Per fare questo dovremo liberarci dall’auto voyeurismo narcisista indotto dalla forma immatura dei social network attuali, dal chiacchiericcio inane che sottolinea l’effimero e il banale invece di prendersi la responsabilità di parlare delle cose importanti delle persone. Ma c’è da sperare che la forza possente del fiume, quello d’acqua con 4 esse e 2 pi ma anche quello fatto di dodici note curvate e tirate, continui a scorrere e a fecondare la musica popolare. Il futuro della musica è affascinante, e mentre scontiamo gli effetti di un presente ancora immaturo, ricordiamo l’invito a tener in mente il premio finale; “keep you eyes on the prize”, come cantavano i cori gospel.

Photo credits: The Rosetta Project

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