Ricevo e volentieri pubblico un prezioso “guest post” da parte di Samot, che i frequentatori di questo blog hanno avuto di conoscere e apprezzare grazie ai suoi commenti sempre ricchi e interessanti. Lo ringrazio e conto che torni a contribuire presto.
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Quando gli editori affrontano le nuove tecnologie hanno spesso perso in partenza. La ragione di tale mancanza di competitività non deriva dal fatto che non si abbiano le competenze tecnologiche necessarie, le si possono acquistare, ma, quasi sempre, da una mancanza di visione del prossimo futuro.
Oggi, quasi tutti gli editori si trovano ad inseguire e i pochi, pochissimi, che sono riusciti a convertire una buona fetta della propria marginalità lo hanno fatto a “botte” di acquisizioni e investimenti.
Un buon esempio è Axel Springer, il cui AD Mathias Dopfner ha parlato a Prima Comunicazione nel numero di marzo, spiegando come, attraverso una lunga serie di acquisizioni e differenziazioni del portafoglio, siano arrivati oggi ad avere un fatturato digitale pari alla carta e una marginalità positiva in grado, addirittura, di compensare i cali delle attività tradizionali.
Ma come ha fatto Axel Springer a ibridizzarsi in maniera così spinta al punto di avere oggi un’azienda a trazione digitale? Semplicemente iniziando a crederci un po’ di tempo fa e mettendo in pratica una serie di contromosse coerenti: hanno creato una concessionaria interna che si dedica anche all’affiliation (mossa che già da anni tutte le aziende web danno per scontata, da TAG di html.it al vertical di Banzai, anche detto Banzai Advertising, tanto per fare qualche nomignolo del web nostrale), e iniziato a offrire, oltre ai portali editoriali, siti di annunci. Tutti business collaterali all’editoria classica che si integrano alla perfezione: lo sviluppo è simile per tutte e tre le attività e i costi di gestione si possono spalmare (fino a un certo punto). Ma per arrivare a questo risultato è dal 2008 che l’editore tedesco fa un investimento nel digitale ogni due settimane, almeno secondo quanto riportato da Prima.
E proprio perché leggo ancora le riviste, e Prima Comunicazione in questo specifico frangente, ho letto con interesse anche l’intervista a Massimiliano Magrini, managing Director di United Capital, uno dei pochi fondi italiani a investire su web. Al di là delle considerazioni classiche sulle startup “figose” del web, sul cosa significhi fare il venture capitalist o il business angel (che in Italia lo sanno davvero in pochi) e la comprensibile compiacenza mostrata all’interno del discorso rispetto ai propri prodotti, la parte che mi ha trovato maggiormente concorde è che la battaglia con Google è persa in partenza e oggi gli editori dovrebbero puntare sul mobile, ancora terra di conquista.
Perché la battaglia su web è persa? Perché Google “ha i migliori ricercatori, che lavorano in un ambiente il cui merito è premiato” e via dicendo. In realtà io credo che sul web tradizionale, per come lo abbiamo inteso finora, la battaglia è persa perché Google gode di una posizione dominante difficilmente scalzabile, ma come lui Facebook, Twitter e via discorrendo. Aziende che, finora, hanno sfruttato il contenuto digitale prodotto dagli editori per traghettare traffico sui propri siti. Oggi però l’asset non è più il contenuto, ma l’utente, quindi chi ha più utenti vince.
Ma allora, se ribaltiamo il mondo, chi ha più utenti oggi? Guarda caso proprio Google, Facebook, Twitter e compagnia cantando, quindi si tratta di trovare vie per drenare utenti e portarli sui nostri contenuti e lì farli restare, e su quest’ultimo punto il mobile è perfetto.
È a questo punto che entra in gioco l’html5. Gli editori possono fare la differenza? Non lo so e non ne sono sicuro, perché la battaglia sarà durissima e gli “editori”, come sempre, rappresenteranno un vaso di coccio in mezzo a palle di cannone (i vasi di bronzo sono troppo teneri).
Personalmente ritengo che a breve (prossimi 3/5 anni) a essere messo in discussione sarà il concetto di revenue su app, cioè l’architettura attualmente dominante della telefonia mobile e dei sistemi operativi che guardano in avanti. Una rivoluzione il cui driver non sarà una volontà economica, ma una semplice evoluzione tecnica e tecnologica: l’adozione di massa degli standard html5. Un linguaggio che impatterà (e sta già impattando) in maniera devastante su quello che oggi diamo per assodato come nuovo standard.
Chiunque prenda in mano uno smartphone si rende conto che è concepito come un insieme di applicazioni. Ma in un epoca in cui è altamente “stiloso” parlare di cloud e “big data” ha senso pensare ancora a software “residenti” come le app?
Mentre gestionali, giochi, posta e quant’altro, migrano dai pc verso la rete, i telefonini sono ancora fermi ai pacchetti di applicazioni che per funzionare correttamente devono essere installate.
Capire perché tale modello è destinato a declinare (più o meno velocemente) è quindi intuitivo, ma per capire il come basta ripercorre i motivi che hanno portato l’affermarsi dei sistemi di app. Il problema dei produttori di device, infatti, è da sempre legato all’infrastruttura hardware che regola il funzionamento del telefonino. Da una parte un sistema di comunicazione tradizionale GSM, dall’altra l’integrazione con un processore di stampo pc, con tutte le risorse del caso, dalla RAM ai bus di comunicazione e alle architetture proprietarie. Infine, video/fotocamere, e software che, per essere leggeri, sono stati sviluppati internamente all’azienda software, che ha, di volta in volta, personalizzato le API del sistema, Cioè le procedure per poter dialogare con il telefono e poter creare codici di programmazione nuovi..
Grazie quindi al rilascio delle API relative a un singolo device, è stato possibile creare applicazioni che facessero funzionare tutti i dispositivi del telefonino. Il problema è che, per sfruttare tale potenzialità, le applicazioni devono risiedere fisicamente sul device, mentre i dati da cui pescano sono tutti su server esterni (diciamo nel cloud così è un po’ più trendy).
Il primo colpo a questo modello lo ha dato proprio un colosso che si è poggiato su questo sistema: Android. Il sistema operativo messo appunto da Google ha imposto ai produttori di adattare le proprie specifiche tecniche al sistema operativo di Mountain View, anche se, poi, ogni produttore si è tenuto una parte di know how, personalizzando il sistema operativo, per differenziarsi dalla concorrenza.
Ma come sta avvenendo per i PC, il futuro è destinato a porre l’hardware in un ruolo differente nella partita sul digitale: il device fornisce design e prestazioni, il software l’”experience”.
Non l’ho capito solo io evidentemente e ciò che si inizia a percepire è che i produttori di hardware non vogliono stare ai margini della partita ma vogliono giocare a tutto campo. Non si accontenteranno più di semplici personalizzazioni delle interfacce. Realizzare però sistemi operativi da zero è oggi una guerra che non possono permettersi, mentre strutturare sistemi simil web è più semplice. Per questo i produttori si stanno orientando su sistemi Linux e sull’hmtl5, magari aperti e prodotti da software house in grado di portare innovazione. Il caso più eclatante è quello di Firefox, che si ripropone di realizzare un sistema operativo in grado di funzionare via browser con html 5. Di più: il browser diventa il sistema operativo.
Indipendentemente dalla riuscita o meno del progetto (intanto i primi modelli di lancio per i soli sviluppatori sono andati a ruba), proprio il browser sarà il cavallo di troia che permetterà agli editori di sbarazzarsi in un sol colpo dei dazi agli store: l’hml5 lo permetterà, senza compromettere la funzionalità di navigazione rispetto a una app.
Non si chiede agli editori di iniziare a produrre sistemi operativi, ma sicuramente di sfruttare la breccia che si aprirà nei browser dei telefonini. Già oggi gli smartphone di ultima generazione sono equipaggiati con browser in grado di interpretare (quasi) al meglio i comandi html5.
Quali sono i limiti? Senza entrare in tecnicismi eccessivi e cercando di non semplificare eccessivamente, sicuramente l’accesso allo storage del telefono: condividere immagini o contenuti memorizzati nel telefono richiede un accesso alla struttura di gerarchizzazione della memoria e i permessi necessari per poter leggervi e scrivere (perdonate sia la complessità sia la semplificazione). Un problema legato a doppio filo con la sicurezza del device e al potere che si cede a un sito web (che semplicemente perché aprite una pagina potrebbe scaricarsi tutte le vostre foto, oppure i vostri numeri telefonici). Tuttavia, se oggi queste API sono concesse per lo sviluppo di APP dedicate non vedo perché in futuro non si trovi un modo di “passarle” anche ai siti web, che magari chiederanno ogni volta l’accesso a determinate funzioni del telefono o un accesso protetto (un po’ come avviene attualmente con i normalissimi computer tradizionali). Un discorso simile si ripropone per la gestione media: per i file multimediali, il browser dipende dal prodotto installato sul telefono, ma sono problemi marginali e i nuovi browser iniziano a gestire anche i player html5.
Indipendentemente da questi problemi di natura tecnica però, i vantaggi, sempre tecnici, sono assoluti: l’html5 è cross platform, il che significa che basta realizzare un solo prodotto per essere fruibili su tutti i device. è scalabile, perché della stessa pagina si possono realizzare differenti versioni che dipendono dalla risoluzione schermo. È remunerativo, perché consente di gestire eventuali paywall personali senza dover dipendere da un’app store.
L’html5 è, insomma, una base di partenza che permette di generare pagine web universali. non solo, lavorando oggi anche sull’integrazione dei propri prodotti con social e motori di ricerca permette facilmente di andare a pescare dai punti di massimo traffico: app di altri, siti di altri, social. Infine, tutti i moderni browser mobile passano i dati di geolocalizzaizone del device, ragion per cui anche funzioni avanzate di georeference sono già oggi gestibili tramite applicazioni html5.
Su cosa puntare allora? Su un team di sviluppo (da creare o da acquistare) in grado di gestire una fase sperimentale di analisi e realizzazione di portali mobile in grado di sfruttare a pieno le potenzialità dell’html5. Personalmente sono piuttosto convinto del fatto che il lo sviluppo debba essere interno all’azienda, perché solo condividendo le problematiche si comprendono le potenzialità dei sistemi, ma è una mia opinione e non inficia il discorso generale. In ogni caso, le figure chiave sono sicuramente almeno tre: un programmatore html5 che sia in grado di lavorare almeno in javascript e un programmatore lamp (Linux-apachi-myswl-php), il primo si occupa dell’interfaccia, il secondo migliora la struttura alle spalle. Si tratta di un cambio a basso costo, perché, a parte le figure citate, non richiede di rivoluzionare la gestione delle banche dati relative a siti e portali, ma solo la parte di interfaccia. Poi sarà necessario ripensare i contenuti per sfruttare tutte le potenzialità, un po’ come avviene oggi con le App. In ogni caso non è un problema di contenuti, o meglio, lo è come sempre, ma in questo momento è un problema di tecnologia.
Insomma, il mondo del mobile sta cambiando, cambiate ora se non vorrete essere travolti, ancora.