Tra noi e il cielo

Vengono
vanno
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più 
il posto dove stai.

Avrete riconosciuto le parole di Fabrizio De André, dal suo penultimo album; così sono bit e byte, vanno e vengono portati nella translucenza delle fibre ottiche, e non sai più dove sono i tuoi file e le tue applicazioni: l’effetto del cloud, della nuvola.

Bene, chiedo scusa al poeta per questa indegna analogia e provo a recuperare. Sto frequentando un paio di corsi di Coursera, una piattaforma di e-learning che propone gratuitamente iniziative delle più prestigiose università del mondo, i migliori docenti, una piattaforma efficacissima. Su un recente numero di Wired  Clayton Christensen, l’autore di “the Innovator’s dilemma”, speculava sul fatto che il prossimo settore a essere “disrupted” sarà proprio quello della educazione superiore. Perché dovrei accontentarmi di una qualità della docenza che per definizione è media, quando posso accedere all’eccellenza connettendomi a uno di questi servizi, che mi permettono appunto di scegliere il meglio che c’è nel mondo?

E’ proprio questa la logica secondo la quale le aziende dovrebbero andare e stanno andando verso il cloud.

Le competenze per l’esercizio delle applicazioni vengono centralizzate, di colpo sala macchine, nuove release dei sistemi operativi, hosting, housing, immobilizzazioni tecnologiche e di macchinari diventano irrilevanti. Si delega il problema a chi ha la scala e i mezzi per raggiungere l’eccellenza, rinunciando al localismo, ai fin troppi tentativi di reinventare la ruota e alla mancanza di competenze che fa pensare di avere il meglio solo perché non si sa cosa c’è là fuori.

Anche le immobilizzazioni in termini di investimenti su specifici strumenti vengono meno. Non acquisto nulla, mi abbono. Uso un sistema fin quando mi è utile, fin quando è aggiornato e competitivo. Viaggio leggero e se non mi piace il posto provo il prossimo paese lungo la strada. Warning! Nulla è mai come sembra e quando scegliamo le applicazioni cui affidarci, nella nuvola o per terra, uno dei criteri di scelta dovrebbe sempre essere la facilità con cui si può migrare. Ma anche questa è una cosa che si impara, io ad esempio nel mio piccolo uso Evernote per le mie note anche perché presenta una facile procedura per esportarle e usarle, un giorno, da qualche altra parte.

Infine, ma non ultimo, l’applicazione sul cloud è aperta per sua natura a una dimensione “social”; disponibilità di applicazioni di terze parti, accesso a forum di consultazione con altri utenti, miglioramenti e risoluzioni di problemi immediatamente riversate su tutti i clienti, condivisione di informazioni e pareri, combinazioni vincenti tra diverse applicazioni che interagiscono (ad esempio importazione di informazioni commerciali da banche dati professionali direttamente sul CRM).

Dal mio punto di vista è impressionante considerare come una volta superate le iniziali resistenze ci si abitua facilmente al nuovo modo di fare le cose. Per ani mi sono preoccupato di backuppare tutti i file importanti; adesso sono psicologicamente a disagio se i miei archivi non sono gestiti su qualche servizio tipo Dropbox, Google Drive o Skydrive. Faccio fatica a accettare che un pezzo di contenuto o un’applicazione critica non sia accessibile dal mio PC, dal mio tablet, dallo smartphone o da un punto di collegamento di emergenza. Insomma, una volta provato non si torna indietro, ma ci vorrebbe meno timidezza e più determinazione nel convincere i vari CEO CTO C-level etc. a uscire dalla porta di casa per constatare che il mondo è grande e bello.

Fra pochi giorni inizio un corso sulla scienza dei dati presso l’Università di Washington, grazie a Coursera, grazie alla nuvola.

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