Back to Karkand

Cena da amici, tra il dolce e il caffè osservo il figlio degli ospiti che gioca a Battlefield 3 con un compagno. Ciascuno è a casa sua, ma sono insieme nel gioco. Parlano e si ascoltano con cuffie e microfono, decidono insieme tattiche di attacco e di difesa, interagiscono, decidono quale armamento adottare in ragione l’uno dell’altro, combattono insieme, si adattano simultaneamente  e in modo coordinato ai cambiamenti dell’ambiente e delle situazioni. Non mi spingo a dire che è “come se” fossero insieme, perché non so che senso avrebbe; forse è addirittura meglio della copresenza fisica, perché condividono in modo trasparente una esperienza, la vivono insieme, collaborano in senso pieno, senza mediazioni apparenti, a uno stesso obiettivo.

Al confronto, tutti gli strumenti che utilizziamo nella comune esperienza di ufficio, dove pure affrontiamo condizioni paragonabili (obiettivi condivisi in presenza di controparti avverse dotate di una propria capacità strategica e tattica, necessità di confronto e di adattamento costante con colleghi di ruoli diversi, coordinamento in tempo reale, etc.) impallidiscono, non regge per vividezza, ricchezza e efficacia. La email appare davvero vecchia, così asincrona, testuale e laboriosa. Il telefono è poveramente monomediale. Skype è comodo, ha una ottima qualità audio e permette (addirittura) la condivisione dello schermo, ma qui si ferma; certo ci si può guardare in faccia, ma a cosa serve?

Anche gli strumenti più avanzati di web conferencing (che ormai si sprecano, nell’ultimo mese devo averne usati almeno quatto diversi, con una preferenza per Goto Meeting) restano monodimensionali, permettono la condivisione di singoli pezzi di esperienza, non consentono di calarsi insieme in una realtà efficacemente ricostruita.

Cosa manca? Vado in ordine sparso; un efficace sistema di indicatori e mappe che definiscano la mia posizione nel contesto, prevengono gli allarmi e mi indichino lo stato delle risorse critiche; l’integrazione piena tra comunicazione fisica (voce) e situazionale (dove sto rispetto all’altro);  l’entrata e l’uscita agevole nella interazione di più soggetti, con un meccanismo elementare di login, senza necessità di chiamata e risposta, così come si entra in un ufficio se si notano due persone che stanno sostenendo una conversazione che ci interessa; la memoria delle situazioni precedenti che mi permette di partire da dove eravamo rimasti; la piena multimedialità dove parola, suono, immagine, immagine in movimento, numero, vista, colore, tutti assumono una propria specifica funzione di utilità che si integra con le altre.

Non ultima, manca la componente di divertimento, che sembra superflua nel contesto di lavoro, ma che a mio avviso è essenziale, se non altro in prospettiva.

La mia convinzione infatti è che certi contesti ormai si reggano solo perché c’è la crisi che impedisce di andare altrove; si soffre ma si resta insieme, come dire,  per mancanza di alternative. Ma quando verrà la benedetta ripresa, certi uffici, certe aziende, certi luoghi di incontro e anche certi strumenti di comunicazione si svuoteranno di presenze, vittime del ritorno di un tempo di opportunità. Dopo tutto, perché dovremmo accontentarci?

P.S. Il mio blog si è offeso perché sono stato via per molto; non nascondo che un po’ di ragione ce l’ha, gli ho chiesto scusa e gli ho promesso di fare meglio nel futuro 🙂

3 Replies to “Back to Karkand”

  1. Ci accontentiamo per quello che credo essere un motivo semplice. La tecnologia è bellissima da utilizzare ma maledettamente (per usare un sano americanismo cinematografico) complessa da realizzare. I lockin tecnologici che le aziende si portano dietro nascono con la logica dei nani sulle spalle dei giganti: se togli il gigante ti ritrovi il nano (con tutto il rispetto per gli uni e per gli altri).

    I ragazzi, così come la tecnologia di consumo, invece, utilizzano logiche differenti: dentro l’ultima novità e azzeramento totale della tecnologia precedente (ho ancora un armadio in cui conservo il primo commodore 16, poi il 64 eccetera -non sono mai arrivato alle consolle e quindi il passo successivo è stato un 286).

    Mi sono occupato per anni di migrazione di banche dati e aggiornamento dei sistemi informativi aziendali, con il risultato che il mercato non offre ciò di cui si ha bisogno: il vero problema è tutto lì, in una architettura flessibile, possibilmente aggiornata e aggiornabile e nella possibilità migrare in toto dalla vecchia alla nuova tecnologia.

    Tutto nero dunque? per fortuna credo di no. “il futuro è nella nuvola” è la frase che va tanto di moda e che personalmente mi dà tanto ai nervi. Il mondo aziendale è pieno di venditori di “cloudstuff” e nella maggior parte delle volte diffido chi già solo mi approccia parlando di cloud. nonostante questa mia inspiegabile prurigine per la tematica nella sua nuova denominazione, le applicazioni lato server sono quelle destinate a cambiare le regole del gioco.

    Ma attenzione: Battlefield 3 da quel che ho visto è un gioco per una grande massa, che può permettersi un prezzo di quasi 40 euro, oltre a guadagnare sul “placing” virtuale. Per realizzare un software del genere ci vogliono praticamente più soldi che per un blockbuster holliwoodiano, ma il risultato è sempre in attivo e per questo si continua a investire nel gaming (anche perché le alternative “open” non saranno mai all’altezza).

    Le soluzioni B2B invece non possono quasi mai contare su modelli così diffusi: troppe personalizzazioni, troppe necessità specifiche, insomma, troppe complessità, al punto che quasi nessun software aziendale nasce già pronto, ma va comunque personalizzato e ogni personalizzazione ne bloccherà, inevitabilmente, lo sviluppo.

    Bisognerà cambiare il modo di lavorare, adattando i processi alle soluzioni esistenti, solo così si potrà sfruttare davvero il cambiamento e le possibilità offerte dalla rete e dal server computing, ma questa è un’altra storia: il 90% delle aziende fornisce ai propri dipendenti che ne hanno diritto ancora un blackbarry, spesso limitato nell’uso e la mail aziendale gira ancora spesso su server inadeguati: la strada per il divertimento è davvero lunga!

    1. Io ho cominciato sul Commodore 64, ma chissà dov’è finito 🙂

      Ci sono degli spunti molto interssanti nel tuo post, sintetizzo quello che mi porto a casa io:
      1. Azzeramento totale della tecnologia invece di costosissimi, complicatissimi e mai del tutto riusciti processi di migrazione
      2. L’informatica fuori dalle mani degli informatici che non offrono quello di cui abbiamo bisogno (ma se non nelle loro mani, di chi, visto l’imbarazzante mancanza di alfabetizzazione informatica del management di linea?)
      3) Il prossimo che entra nel mio ufficio e dice “cloud” lo vaporizzo così raggiunge la nuvola
      4) Al bando le personalizzazioni, abituiamoci al “one size fits all”, alla taglia unica, siamo tutti veramente così speciali da meritare sistemi fatti apposta per noi?
      5) Rivendichiamo il diritto a divertirci sul luogo di lavoro; non è un problema di “la terra è bassa e il lavoro è fatica” perché si fatica anche a divertirsi (lo dice uno che è orgoglioso del suo 58:42 nell’ultimo 10k); è un problema di NOIA

      1. contesto inesorabilmente il punto 2! e lo modificherei con “L’informatica fuori dai ciarlatani”, o meglio ancora fuori i ciarlatani dall’informatica, perché il problema è tutto lì, sia nella linea decisionale, sia nelle aziende fornitrici;)

        e aggiungerei: big is better. Se un sistema funziona, è apprezzato e ha raggiunto una massa critica considerevole, usare quello (a meno che il nostro core business non sia realizzare sistemi propri, nel qual caso la strategia è un po’ restrittiva o che non sia un “too big to fail”, dove vengono buttati miliardi per tenere in vita un sistema decrepito)

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