La furia dei titani

Infuria la lotta tra i big 5, a suon di cause giudiziarie, lanci di nuovi prodotti, problemi con l’antitrust, balzi in avanti tecnologici, investimenti sul capitale intellettuale, acquisizioni e via discorrendo.

Tra le tante notizie delle ultime ore, ne vorrei riprendere una che è passata un po’ in sordina: il nuovo Nexus Q di Google è “Designed and manufactured in the USA” – “and manufactured” appunto, costruito in america.

Questo fatto superficialmente può essere interpretato come una conferma del movimento di “reshoring” già da tempo in atto in europa occidentale e in america. La produzione industriale sta rientrando gradualmente, a causa di problemi di qualità e time to market nei paesi emergenti che spostano l’equilibrio della convenienza.

A mio avviso però la notizia porta in evidenza una questione più profonda. Nell’ultimo vertice di Davos era emerso un dubbio importante relativo alla potenziale antitesi tra il progresso tecnologico ed economico e l’occupazione. Detta in modo brevissimo, le grandi aziende di una volta occupavano miriadi di operi e impiegati, mentre le grandi aziende dell’era digitale ne occupano poche migliaia, quando non poche centinaia. Di conseguenza, creare benessere economico attraverso lo sviluppo di aziende all’avanguardia, portare un paese o una regione dal secondario al terziario avanzato può voler dire danneggiare l’occupazione, Se è così, promuovere lo sviluppo di un paese sui prodotti più avanzati può significare spingere verso la disoccupazione; e questo è un problema politico e sociale formidabile. Se è così, si tratta di una antitesi che non si sa da dove guardare, che sembra impossibile da gestire.

Forse Google ha fatto semplicemente una scelta ispirata da questioni produttive e logistiche; forse invece questa decisione porta alla saldatura di una  frattura potenziale, restituendo armonia e sostenibilità al bimonio consumatore-produttore (il prosumer, se vogliamo usare questa brutta parola) che si stava scompensando verso il primo polo.

Nel film di animazione wall-e i sopravvissuti della specie umana sono ridotti a ciccioni inermi e devertebrati, che passano la vita su una nave spaziale/da crociera, annoiati consumatori di piaceri sempre meno attraenti, privati della relazione diretta (tutte le comunicazioni, anche quelle tra persone vicine, avvengono attraverso uno schermo saldamente posizionato sulla poltroncina) e costantemente accuditi da una tecnologia di servizio. Il trionfo del consumatore passivo, la fine dell’homo faber.

Mettere le proprie mani sulle cose che utilizziamo, sapere come sono fatte, essere in grado di costruirle è un valore che risorge prepotente, un moto assolutamente controcorrente rispetto alle tonnellate di tempo spese a fare like, tweet e pin.  Ora vi lascio, devo riparare il ventilatore che ho portato su dalla cantina.

2 Replies to “La furia dei titani”

  1. Non sono sicuro che “promuovere lo sviluppo di un paese sui prodotti più avanzati può significare spingere verso la disoccupazione”. Se così fosse, posti come la California o la Finlandia dovrebbero essere dei gironi infernali con milioni di senza lavoro mentre in tutta evidenza così non è. D’altro canto non credo nemmeno che se Google si mette a produrre in America lo faccia in base a considerazioni di natura filosofica: le nuove tecniche produttive ormai richiedono un bassissimo apporto di manodopera diretta e ciò in qualche caso può rendere economico produrre dove si vende (e produrre in Cina tra l’altro non è più così a buon mercato come una volta). Con l’avvento della stampa a 3D è molto probabile che questo processo si intensifichi, ma è escluso che questo porti a grandi rivoluzioni nell’occupazione.

    1. Ciao Andrea, hai ragione, nel senso che la contrapposizione cui ho accennato è estremamente complessa e richiederebbe spiegazioni e distinguo molto più argomentati. E’ come parlare della contrapposizione tra progresso economico e sostenibilità ambientale; è un problema enorme e non si può certo risolverlo in poche righe. Ecco appunto, a mio parere si è aggiunta una nuova potenziale contrapposizione, perché i modelli economici e produttivi più moderni non sempre generano occupazione e non è solo questione di aumento costante di produttività che è un problema ben noto e gestibile. E’ una soluzione di continuità, perché i grandissimi del digitale hanno un rapporto fatturato per addetto non confrontabile a quello dei modelli precedenti; questo perché risentono di economie di rete che producono effetti esponenziali, non lineari. Poi alla fine noi mangiamo e utilizziamo cose fisiche, ma finora erano state considerate appendici, logiche conseguenze, effetti residuali da far gestire da qualche altra parte. La stampa in 3D che sta arrivando a prezzi consumer, il movimento del DYI (Chris Anderson docet), l’insourcing e la ripresa del protagonismo produttivo proprio delle punte di diamante del progresso digitale mostrano, a mio parere, strade verso possibili conciliazioni della contrapposizione.

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