Piazza di Jāmiʿ el-Fnā, il cuore di Marrakech, al tramonto; è una sera di primavera di tanti anni fa, sono lì con un gruppo di colleghi da tutte le parti d’Europa, i vincitori della gara per i migliori venditori di una grande multinazionale del business information (attimo della vanità, l’ho vinto per tre anni di fila nella categoria responsabili vendite).
Quella stessa piazza purtroppo qualche anno dopo è stata macchiata dal sangue delle bombe; allora era fascino puro, piena della gente che usciva di casa a godersi il fresco della sera, animata dai venditori di datteri, frutta secca, dolci zuccheratissimi; acrobati, saltimbanchi, mangiafuoco; un turbinio, di colori, odori e sapori. Lo spettacolo più avvincente era però quello dei cantastorie, che scendevano dalle montagne dell’Atlante per guadagnarsi la vita vendendo fantasia all’ombra della medina. Ovviamente non ero in grado di comprendere cosa dicessero, ma mi sono fermato lo stesso a lungo ad ascoltarli, mentre il sole calava. Il modo in cui animavano la storia, cambiando voce e atteggiamento a seconda dei personaggi che rappresentavano; la partecipazione del cerchio di persone che li circondavano, i bimbi che si spaventavano e gli adulti che ridevano; l’evidente sforzo creativo, storie raccontate mille volte che a ogni ripetizione scoprivano angolature, nuove, intrecci ami esplorati prima. Ho rimpianto amaramente troppe serate steso sul divano a subire il grigiore televisivo.
Quelli non erano racconti; erano storie incarnate, erano esperienze. Gli ascoltatori non erano tali, facevano in qualche modo parte della storia, che si dipanava perché erano lì, a seconda del modo in cui reagivano. Succedeva tutto in quel momento, in quel luogo, con e per quelle persone. Non avrebbe avuto senso altrimenti, estrarre l’atto del racconto e attribuirgli una autonomia a prescindere dai partecipanti avrebbe eliminato l’emozione e la partecipazione che determinavano la storia stessa.
L’occidente ha perso l’arte dei cantastorie con l’avvento dell’illuminismo e dei mezzi di comunicazione di massa. Abbiamo favorito e accettato una comunicazione asimmetrica e asincrona, strutturata con un io che scrive da una parte e un noi che leggiamo da un’altra. La partecipazione è differita, standardizzata, passiva.
La comunicazione digitale però anche in questo si presenta come un ritorno al futuro, ed è molto più simile all’arte dimenticata e affascinante dello story telling. Le pillole di contenuto che si dipanano all’interno di blog, forum, social network, form di recommendation, etc. sono passi in un flusso di conversazione, vivono e hanno senso per quello che li precede e quello che li segue, sono espressioni di persone che interagiscono con altre persone, costruendo una esperienza che è comunicazione, è informazione.
Non ha senso immaginare una comunicazione su Internet che non abbia queste caratteristiche, che riproponga una comunicazione monodirezionale a un soggetto passivo.
D’altro canto, il reportage della più famosa guerra dell’umanità inizia con un cantastorie cieco dell’Asia Minore che invoca le Muse (gli editori dell’epoca…) per aiutarlo a raccontare la tragica e illustre storia di Achille.
Tutto vero e condivisibile.
Ma tu sai che, invece, la musica (la musica anche cantata) questo fa.
Ah, la musica……dovunque essa sia, dovunque essa alloggi, o dovunque essa sia “ascoltabile”….qualunque essa sia…qualunque essa sia.
La musica.
Ciao
In effetti il movimento folk degli anni ’60, nato da Woody Guthrie, passato da Pete Seggere sfociato in Bob Dylan, ha la stessa ideologia di fondo. Una canzone nasce da qualcuno, ma appartiene al popolo che l’ha creata perché chiunque la canti la riprende, la interpreta, la evolve e la modifica. Una sorta di “creative commons”.