La citazione musicale in questo caso è un po’ specialistica, ma delizierà i pochi anche se fedelissimi fan di Sam Cooke.
Il tema è quello dell’uso di Twitter da parte delle testate giornalistiche; ne ho esaminate una manciata di recente, constatando che i cinguettii vengono usati esclusivamente per “lanciare” la pubblicazione di un articolo sul sito web della testata: pubblico un articolo sul sito, lancio un tweet con il link all’articolo stesso; e via così, a twittare via la notte.
Sembrerebbe semplicemente una scelta di pigrizia, invece è peggio, perché indica la mancata comprensione dell’ambito dei social media, e di cosa essi rappresentano.
Spero di non risultare didattico o presuntuoso, ma voglio indicare alcune regole fondamentali che possono facilmente ispirare un uso diverso:
- I social media sono personali, proprio in quanto social. Mi interessa quello che ha da dire Fiorello, molto meno quello che avrebbe da dire l’account del suo spettacolo (che infatti neanche esiste).
- I social media sono fluidi, seguono la nostra vita. Twitter in particolare per la sua brevità si presta a essere usato in ogni circostanza e momento della giornata. Il tweet non parte da un posto o da un’istituzione, ma da una persona che esiste nella sua storia quotidiana; fa cose, vede persone. Ricordiamolo, context is king, e sotto questo punto di vista l’uso degli hashtag è geniale.
- Questo è vero in particolare per la componente geo e per quella tempo. I miei tweet dipendono da dove sono. Dove sono determina o si accompagna a cosa sto facendo in quel momento. Alla monoliticità dei media tradizionali si sostituisce la liquidità dei social media, che esistono nel tempo e nello spazio.
- I social media sono una conversazione in cui si parla e si risponde. Non sono monodirezionali come i media tradizionali, secondo i quali a fronte di un soggetto “attivo” (diciamo il giornalista) ci sono migliaia o milioni di spettatori “passivi”; uno a parlare, gli altri ad ascoltare. Se vuoi conversare devi ascoltare, ritwittare, rispondere, partecipare, accettare l’invasione in redazione. Su questo punto io ho l’impressione che la tolleranza di quello che nel vecchio ordine avremmo chiamato “pubblico”, sia molto bassa; se sei qui per conversare, parliamo; se sei qui solo per parlare, non mi interessa.
- I social media sono multimedia e, ricordiamolo, è il video il “media of choice”. Questo è un filo più difficile su twitter per le caratteristiche del mezzo, dove comunque lo scambio di immagini è molto frequente.
Cambio argomento bruscamente per chiedere un consiglio.
Arriva l’inverno e ho iniziato a vestire un loden verde che ha già visto qualche stagione. Una “scelta tecnica” che adesso si ammanta di significati politici e culturali. Cosa dovrei fare?
- Continuare a vestirlo con orgoglio
- Continuare a vestirlo con indifferenza
- Rimetterlo nell’armadio e tirare fuori il giaccone blu comprato qualche anno fa a Monaco di Baviera
ehehe anche io tra Cat Stevens e Sam Cooke non avrei dubbi, era solo che la citazione sulla leggerezza mi veniva bene così (in ogni caso hai fatto bene a specificare che il riferimento fosse a Cooke, perché io inizialmente avevo subito associato ai Chumbawamba).
Sui due temi è vero, sono entrambi spinosi e complessi, io credo che la “voce” appartenga sempre all’individuo, perché nei social media non si fa un articolo o un’inchiesta, si dialoga (come hai giustamente detto) e nel dialogo uno esprime le proprie opinioni, insomma, dovrebbe avere libertà di parola (cosa che dovrebbe avere anche come giornalista ma tutti sappiamo che non è proprio così). Poi ci sarebbe ancora da disquisire sulla autenticità che tutti, giornalisti o semplici partecipanti al mondo della “chiacchiera” on-line, perché è più importante avere follower o dire davvero quello che si pensa? insomma, internet è un mare enorme di cui si può dire tutto e il contrario di tutto, il punto è provare a dare soluzioni. Io ci provo e anche in questo caso ho proposto un modello, se poi è possibile ne do’ anche altri, finché il mio contributo può servire a qualcosa: take anything you want from me, anything (però stavolta è il grande, immenso stevie ray;)
Poi la smettiamo con le leziosità o le passiamo in versione privata, ma pensare che io abbia potuto citare i Chumbawanda è da cartellino rosso: “a perpetually drunk British party band”, la cui tubthumping è stata votata tra le 10 peggiori canzoni rock degli anni novanta, roba da discobar per intellettuali chic. Vuoi mettere con SRV che si metteva la colla militare sulle dita per fare i bending sulle impossibili corde da .017?
ehehe ok ammetto che mi piace un po’ provocare, però non è male passare da temi giganti dell’editoria ai Chumbawanba! lancio uno spunto allora: i Chumbawamba sono come molti editori che pensano di risolvere i propri problemi con l’iPad: “roba da discobar per intellettuali chic”. Il problema non sono mai gli strumenti, ma chi li suona;)
In ordine sparso…
Primo: stupenda la citazione!
Secondo: continuare a vestire il loden con indifferenza, chi segue le mode si fa travolgere da esse (anche quando hanno significati politici).
Terzo: sull’uso di twitter… sarei più favorevole a una citazione musicale differente e più nota: twitting and hoping on a moon shadow (come direbbe cat stevens). Per dire che il tweet è leggero, lo sì fa spontaneamente, senza pianificazione, ma lo si deve fare appunto come conversazione e richiede un impegno costante per essere efficace (almeno tutti i giorni con regolarità). Per una casa editrice questo diventa molto complesso da gestire, perché i giornalisti sono, in fondo (anche se può sembrare strano), persone abituate a parlare, con i propri informatori, con le persone che lavorano in un settore eccetera, inoltre sono abituati ad un pubblico… ma che succede se cambiano azienda? si portano via i follower? quindi che fare? obbligare i dipendenti o i giornalisti a usare un account aziendale? ma chi lo farebbe con entusiasmo? come si può “conversare” con un marchio? personalmente sono contrario all’utilizzo di twitter a livello aziendale, meglio usare il giusto social media per il giusto scopo. Per non essere astratto faccio un esempio: spingo i contenuti sulla pagina facebook, dove posso commentare e contestualizzare ogni singola notizia spiegando perché è interessante, apro discussioni su un gruppo linkedin, non per parlare dei miei contenuti, ma prendendo spunto da essi (ma anche no) e creando hype sui nostri approfondimenti (o da lì prendo spunti) e uso twitter per il mio personal branding (nel caso specifico male e in maniera discontinua causa prigrizia), così come utilizzo allo stesso modo il mio acocunt fb privato cui hanno accesso solo gli “amici” reali e non le conoscenze di lavoro… insomma, razionalizzare l’uso dei social media è secondo me fondamentale per sopravvivere!
Secondo me tu poni due questioni molto importanti.
La prima è quella relativa a chi appartiene la “voce”; al giornalista o all’azienda? Gli steccati erano chiari e codificati nel vecchio mondo, adesso è tutto da reinventare scoprendo nuovi equilibri. Per sottolineare quanto è cruciale questa questione, recentemente negli USA il tribunale ha condannato un giornalista che lasciando la testata si era portato via la lista dei follower Twitter, e la ingente richiesta di danni da parte dell’editore sottolinea di come non stiamo parlando di questioni eteree, ma di chi controlla la conversazione.
La seconda è sull’uso coordinato dei social media, tu proponi un modello chiaro, varrà assolutamente la pena di ritornarci sopra.
Infine, anche a me piace Cat Stevens, ma tra lui e Sam Cooke, tutta la vista Sam: let the good times roll!