Ve la racconto come me la ricordo, e come mi è stata venduta.
Anni fa ho passato una giornata a fare visite di vendita in affiancamento in quel di Lumezzane, sopra Brescia, in Val Trompia; più esattamente in una valle laterale, la Val Gobbia, che è lunga, stretta e buia. Vien voglia di lavorare in un posto del genere, ed effettivamente c’era poca gente in giro, a parte un passante cui chiedemmo dov’era il centro del paese e che rispose piccato “questo non è un paese, è una città!” (effettivamente, 23.000 abitanti …).
Fatto sta che Lumezzane è abitato da gente straordinaria che ne ha fatto un centro industriale importantissimo, incuranti della posizione, delle dimensioni e dei tanti secoli di fame tipici di una valle prealpina.
La storia è questa: dopo la guerra un militare americano torna a Lumezzane, dove era stato disclocato nel periodo bellico, e fonda una fabbrica di pentole. Praticamente come fanno adesso gli industriali di Treviso in Romania. Si trattava allora di una produzione non particolarmente complessa, che richiedeva un investimento in macchinari non proibitivo; contavano i salari bassi, e a Lumezzane non era difficile trovarne. Dopo un po’ di tempo uno degli operai decide di mettersi in proprio, fa il giro dei parenti per raggranellare il necessario, compra il macchinario, lo installa nella cascina dietro casa e inizia a lavorare in proprio. Dopo un po’ altri seguono l’esempio e in poco tempo Lumezzane diventa un miracolo di imprenditorialità, con brevetti strappati alla NASA (avete presente il pentolino per fare il cappuccino?) e una quota significativa della produzione mondiale di pentolame e posateria; fino alla crisi indotta dalla concorrenza spietata di Cina e Turchia, e alla ripresa recente grazie alla focalizzazione sui segmenti alti, almeno secondo un articolo del Sole di settimana scorsa.
La domanda: perché non è possibile fare lo stesso nel digitale, un settore in cui le aziende italiane di successo internazionale sono pochissime? Perché mancano i soldi? Perché più che i soldi mancano gli “smart money”, vale a dire il finanziamento accompagnato da consigli, contatti, accompagnamento allo sviluppo? Perché i giovani di adesso non valgono la generazione della guerra?
L’ultimo numero di Wired (edizione americana) riportava un interessante articolo su una sorta di incubatore-agente promozionale-scuola accelerata di imprenditorialità nella Silicon Valley che pare faccia miracoli nel prendere giovani imprenditori, insegnar loro come si fa uno start up, aiutarli a svilupare la loro idea, trovare i finanziatori, entrare in una rete di relazioni. E’ questo che manca? O è che non abbiamo più la fame a spingerci? O è colpa del governo che non sviluppa la banda larga? Qual è la scusa buona?
C’è indubbiamente un contesto sfavorevole per l’imprenditoria, ma non saprei attribuire responsabilità precise tra carenze infrastrutturali del sistema Italia e limiti culturali.
Illuminanti statistiche hanno fotografato quanto la propensione del giovane Italiano ad andare a lavorare all’estero sia largamente inferiore rispetto ai giovani di molte altre nazioni: poco patriota l’Italiano, ma non chiedetegli di rinunciare agli spaghetti…
Il vecchio continente, in particolare L’Italia, è poco meritocratico: sono importanti le relazioni, lo status non le idee, la visione, le capacità. Nella multinazionali è infrequente trovare colleghi esteri, attorno ai 30 anni, che rivestono posizioni quali Vice President o General Manager; in Italia non sarebbe ritenuto credibile un giovane in posizioni di simile responsabilità. Essere un giovane serio e talentuoso apre poche porte.
Uscendo dalle statistiche e avventurandomi nella soggettività, ritengo che in Italia vi sia un deficit cronico di giuste ambizioni: si incontra desiderio di vita facile, di ricchezza, di fama. Ma è la voglia di cambiare il mondo, di migliorarlo, che ha animato i più ambiziosi disegni imprenditoriali.
Molti luoghi comuni stigmatizzano la capacità dell’Italiano di arrangiarsi, di galleggiare: questa eccezionale capacità è antitetica alla vis imprenditoriale che talvolta porta sul fondo, talvolta porta alle stelle. Ci accontentiamo. Ci turiamo il naso. E spesso cerchiamo di trascorrere nella maniera più facile la nostra esistenza. Cerchiamo scorciatoie, facciamo i furbetti, adoriamo negoziare e utilizzare il Cencelli.
Il coraggio in Italia non è un valore; nel collettivo è la virtù degli stupidi, di coloro che non sono in grado di trovare mediazioni efficaci. Il governo delle attività è finalizzato al consenso piuttosto che al risultato.
Erasmo da Rotterdam troverebbe materiale per altri 6 libri nell’Italia di oggi, dove fortunatamente qualcuno, ancora oggi, trova la forza ed il coraggio per sfidarci (noi e il nostro sistema Italia) e cercare di cambiarlo
http://www.pnveneto.org/2010/12/h-farm-il-venture-capital-che-viene-dalla-serenissima/
Ho trovato molto interessanti i due commenti di segno opposto precedenti al mio (scaturiti dall’altrettanto interessante tema trattato nel post). L’uno vede un mondo di grande prospettiva, il secondo mette in nostro paese in una situazione di affanno. Per mia natura sono tendenzialmente più a favore della prima visione: il futuro sarà migliore e internet porta con sé una gran mole di innovazione e cambiamento (l’università, per piacere, lasciamola fuori… sono quasi 3 mesi che cerco un programmatore LAMP, l’insieme di linguaggi di programmazione più semplice al mondo).
Detto questo però, vorrei raccontare anche io un aneddoto (sarà uno ma potrebbero essere mille) simile quello di Lumezzane. Lecco è un polo industriale di alto livello, qui viene prodotto un articolo particolarmente semplice in cui l’Italia è particolarmente competitiva e battaglia con Germania e altri importanti paesi a suon di brevetti (non dirò di che prodotto si tratta perché le aziende sarebbero facilmente identificabili e quello che sto per dire non è proprio bellissimo) . Oggi a gestire queste aziende sono spesso le seconde o terze generazioni, giovani imprenditori che utilizzano la leva finanziaria, puntano su R&D e agognano la quotazione in borsa. Tutto giusto, tutto bellissimo. Poi però incontri il primo, il pater familiae dell’azienda, quello che per primo con fatica e sacrificio a creato la realtà industriale di oggi partendo da un retrobottega e che ti dice: “oggi con tutta questa finanza non riesce a fare neanche un po’ di nero, ai miei tempi sì che era possibile partire con un’azienda”. Perché la verità è che molti industriali sono partiti alla grande comprando subito un armadio per nasconderci poi gli scheletri. Il problema, ovviamente, non è la pressione fiscale, ma un sistema paese che rende difficile lo start-up di nuove aziende, perché il breack even è un miraggio in ogni business plan di una nuova attività un minimo importante in Italia e poi, certo, perché ci sono pochi investitori. Pensare di partire, come il vecchio produttore di pentole è difficile, perché partendo in un garage ci si scontra subito con i giganti dell’IT, dell’editoria e della Telefonia, non con il casalinghi dietro l’angolo. Qualche esempio? in Italia sono nati progetti interessanti, anche vincenti, come nel settore food, dove però hanno subito perso la partita contro google places, che ha aggregato i loro dati ed è divenuto, di fatto, proprietario del flusso distributivo. Oppure servizi utili, come SOS tariffe, progetto nato in seno alla Bocconi che ha beneficiato di iniezioni di capitali italiani (caso più unico che raro) ma che alla fine rimane un sito internet di nicchia.
Non sono scuse, è la globalizzazione. La stessa per cui il settore del pentolame di Lumezzane è in crisi. La differenza, tra i giovani del dopoguerra e quelli di oggi è che non si può più pensare di diventare industriali partendo artigiani.
E in questo caso l’esempio americano non è nulla di nuovo: un tempo per essere sicuri di una professione ci si iscriveva a una università privata, in modo da avere i “contatti” giusti, oggi bisognerà frequentare lo sviluppatore-incubatore eccetera eccetera.
Ciao Alessandro,
ti rispondo perchè la tua domanda è anche la mia domanda.
Mancano molte cose rispetto a quegli anni. Non si possono né si devono fare paragoni.
Mio padre, classe 1928, mi racconta che alla fine degli anni Quaranta , girava la provincia di Verona in bicicletta a far propaganda dei libri scolastici della Fabbri Editori, appena fondata. La bici – se ho capito bene – aveva le gomme piene e non era facile pedalare. E’ chiaro che negli anni ’60 ha raccolto i risultati meritati.
Il boom degli anni Cinquanta di sicuro si è fondato su tutti quelli che – come il soldato di Lumezzane – hanno lavorato 12-14 ore al giorno. Lavorare, lavorare, lavorare però non basta più. In America, ma soprattutto in California (l’università ha qualche responsabilità in questo) è possibile trovare investitori che “rischiano” il proprio gruzzolo su dieci piccole società sapendo che statisticamente cinque falliscono, tre vanno in pareggio, ed una o due avranno successo.
Qui in Italia invece gli investitori… si fidano dell’amico dell’amico, come il Madoff dei Parioli. Oppure della sicurezza (sic!) dell’investimento immobiliare che dà una rendita garantita. Ti sei chiesto se tutti i miliardi investiti in immobiliare, che oggi sta lì a guardarci inutilmente, fossero andati in micro/mini aziende di giovanotti e giovanotte dalle belle idee e speranze, che crescita avremmo avuto? Ma negli ultimi dieci anni abbiamo cresciuto tanti muratori, invece che imprenditori/ricercatori.
Per rispondere alla tua domanda, l’elenco delle cose che mancano sarebbe lungo: manca la conoscenza delle lingue, manca l’abitudine a lavorare insieme, manca l’abitudine a dover cercare i clienti all’estero, perchè il mercato interno bastava, e manca anche l’obiettivo di voler raggiungere un successo, invece del reddito sicuro, garantito e possibilmente abbastanza alto da potersi togliere un po’ di sfizi.
Oggi sono rimasto molto colpito dal suicidio di un imprenditore bolognese, Paolo Mascagni. Terza generazione di imprenditori seri ed onesti, grandi lavoratori. Che però non ha saputo interpretare il cambiamento che arrivava.
Il punto è che, non avendo investito prima, si deve farlo adesso. Ed invece di farlo poco alla volta adesso si dovrebbe farlo di corsa. Per questo servono anche i soldi. Ce n’è – forse un po’ meno – ma ce n’è! Ma chi li ha è disposto a cambiare abitudini?
Le generazioni successive agli anni della guerra difficilmente sono riuscite ad eguagliare il livello di quelle che le hanno precedute combattendo e versando il proprio sangue per il futuro dei propri cari. (che poi saremmo noi!)
No Alessandro, non credo che manchino i soldi e neppure gli smart money. Non penso neanche che i giovani abbiano bisogno di consigli, di incubatori e via dicendo: il livello delle università che frequentano è superlativo e senza paragoni col passato. Non bastassero le università, Internet offre loro un universo sconfinato di scienza e di conoscenza.
Credo che manchi un approccio al business completamente nuovo, diverso in tutto e per tutto da quello che è stato sino oggi, tanto più e a maggior ragione, nel settore più vicino al “fronte più avanzato della tecnologia” (internet) come l’editoria e la comunicazione.
Credo che un grande impulso di profonda innovazione verrà quando tutti (fornitori e clienti del settore) avranno realizzato a fondo le implicazioni della rivoluzione dei social media. Non una moda, non un trend tra i tanti. Bensì un mezzo che rivoluzionando il modo di relazionarsi tra le persone impatta irreversibilmente anche sul modo di fare e di concepire il business. Un modo che privilegia l’autenticità e la trasparenza sull’arroganza, che premia la passione e l’interesse genuino per un argomento al modo “industriale” di confezionare l’informazione.
Penso che i giovani siano estremamente fortunati a vivere in un periodo così intensamente ricco di stimoli. Saranno loro, grazie a Internet e ai social media ad affondare i carrozzoni inutili e arroganti della disinformazione stampata e online.