Non vi preoccupate, l’ho promesso e mantengo, niente politica su questo blog.
Prendo solo spunto da una notizia di cronaca per una riflessione sui confini; mentre risorgono le antiche frontiere tra stati a limitare la libera circolazione delle persone, i vari attori che gestiscono i contenuti fanno fatica a individuare i giusti limiti alla libera circolazione delle idee e delle notizie.
Iniziamo da chi fa i device. Le configurazioni esistenti vanno dai sistemi chiusi e autarchici (il mondo Apple, per intenderci) a quelli aperti (Android). A ben guardare però i sistemi chiusi non sono poi così impermeabili. La storia militare è un lungo inseguirsi di nuovi mezzzi di difesa cui si contrappongono nuovi mezzi di offesa, in un ping pong continuo. Dicono però che alla fine vincono sempre i mezzi di offesa: jailbreak e Cydia inclusi. E neanche i sistemi aperti lo sono fino in fondo; la configurazione adottata dal costruttore del singolo smartphone può inibire alla fonte specifiche funzioni, e anche in questo caso l’utilizzo pieno del sistema è possibile solo tramite hacking.
Veniamo ora ai contenuti. Gli editori, quando è nato il web, si sono gettati a pubblicare on-line tutto il pubblicabile, con un approccio “chi c’è c’è chi non c’è non c’è”; d’altro canto, se non lo faceva uno lo faceva un altro, e allora tanto vale. I soldi? In qualche modo sarebbero arrivati, intanto bisognava correre per occupare le praterie. C’è una bella scena di un film un po’ meno bello, “Cuori ribelli”, in cui i pionieri si gettano come in una gara a piantare pioli per occupare gli appezzamenti messi a disposizione dal governo USA nel west in via di colonizzazione; stanno tutti dietro una linea e quando viene dato il via, a bordo di cavalli, carri, biciclette o a piedi corrono a occupare i pezzi di terra più belli. Così è successo durante la bolla, tutti a correre per acchiappare “users” o “page views”; svendendo, regalando valore. Ovviamente quello che è disponibile gratis oggi, diventa impossibile farlo pagare domani.
E sono inefficaci i tardivi ripensamenti di chi a un certo punto ha voluto erigere steccati dove prima c’era l'”open range”. Ad esempio con i tablet, che vengono visti proprio come l’opportunità di ricostruire muri e barriere. Purtroppo, ahimè, non è questione di device; i buoi ormai sono andati. Quelli disponibili a pagare l’informazione sono pochi, pochissimi; gli altri sono disposti a rischiare una minore qualità.
In controtendenza si citano pochi casi, tra tutti quello più gettonato è il Financial Times, che però ha caratteristiche per niente banali. Si tratta infatti di contenuti “must have” per una attività professionale (ne ho bisogno per fare il mio lavoro); proprietari ed esclusivi (se non li prendi da me, nessuno te li può dare, o comunque non con la medesima frequenza, ricchezza, approfondimento, etc.).
Per tagliare il salame con l’accetta, dunque, il mondo della notizia ormai tende a diventare terra di nessuno, soggetto a una progressiva perdita del valore del marchio di chi me lo fornisce. Il contenuto proprietario ed esclusivo, se e dove c’è, è un’oasi più facile da proteggere, così come il commento personale e di livello (à la Chicago blog, per intenderci). Nicchie, o poco più.
Senza contare che sempre più le fonti di approvvigionamento ai dati diventano largamente disponibili, i distributori esclusivi lasciano il posto ai file xml public domain; informazioni catastali, bandi di gara, leggi e sentenze, etc.
Tutte le entità in qualche misura istituzionali (enti statali, aziende produttrici, partiti e movimenti) tendono a saltare l’intermediatore tradizionale (il mezzo stampa) e a rivolgersi direttamente al pubblico.
Ma chi mai vorrà pagare per avere i programmi tv? O le ultime dichiarazioni dei politici? Un numero di telefono? L’indirizzo di un ristorante? Le quotazioni di borsa o il meteo? Le ultime notizie da Lampedusa?
Dove sono allora gli spazi per ridare dignità e reddito all’antico mestiere di editore? Probabilmente non nella notizia in quanto tale: il valore si fa con il montaggio, come ho detto precedentemente. Aggregando, estraendo senso, portando la notizia nel formato, nel luogo, nel tempo in cui crea valore. Andando a ricercare fonti esclusive, taggando in modo da costruire un framework concettuale, utilizzando la tecnologia semantica per guidare il cliente attraverso masse di dati di cui ormai non si vede la fine. Gestendo la coda lunga ma concentrandosi su cluster e regolarità. Non pensando più in termini di articoli, ma di contenuti; non di notizie, ma di dati. In una espressione sola, usando la tecnologia per sostituire la cultura all’informazione.
Quando nel vecchio West i pionieri corsero ad accaparrarsi i territori messi a disposizione dallo stato dovettero affrontare molte difficoltà: una volta piantata la bandierina c’era da costruire tutto, dai ranch alle cittadine. Poi ci fu la gerra (quasi civile) tra i vari proprietari di appezzamenti, ma alla fine, molti di quei primi pionieri, hanno potuto beneficiare di una buona rendita: proprietà terriere gratis, cessioni di concessioni alle ferrovie (tanto per citare qualche vecchio film western), in taluni casi addirittura pozzi di petrolio. Erano eventi che non potevano essere predetti e in buona parte il “caso” ha svolto un ruolo cruciale nel determinare ricchezze personali.
Si tratta solo di un esempio il cui parallelismo con l’editoria è tutto da dimostrare. Accaparrarsi unique users è stata una filosofia sbagliata? Difficile dirlo, oggi i “generalisti” più forti dell’on-line sono gli stessi che c’erano sulla carta. Certo, nessuno è disposto a pagare, ma l’euro del costo/copia davvero copriva le spese di stampa (spesso a colori) e di distribuzione di un quotidiano?
D’altronde, internet è un luogo libero (sarebbe meglio dire il web, sulle applicazioni non sono tanto sicuro) e chiunque si sia arroccato in una posizione difensiva è stato scardinato dalla massa (anche i siti necessari per lavoro, esistono parecchie applicazioncine di ckacking che provano e trovano nomi utente e pswd anche di siti di nicchia). Ciò che al momento rimane valido è quella sorta di assioma legato ad età e disponibilità che tanto piace agli amanti del filosofeggiare: chi è giovane ha più tempo e tende a trovare soluzioni di craking, chi è più maturo ha meno tempo e compra. Una visione che non mi convince al 100% perché, domani, chi oggi crakkava programmi/contenuti/siti saprà come farlo e non dovrà perderci più di tanto tempo (parlo per esperienza diretta).
Infine, il valore dell’editore. L’editore sceglie le notizie e la linea da seguire. Per questo viene apprezzato. Certo, utilizzare strumenti semantici per creare cluster, o anche trattare le notizie come contenuti e proporle in maniera sequenziale agli utilizzatori, sono modi per dare all’utente una buona esperienza di navigazione e di informazione. Ma davvero è questa la battaglia che gli editori dovrebbero combattere? Perché in questo caso i nemici si chiamano Google, Facebook, e tutte le grandi, anzi grandissime, software house del mondo. No, credo che l’editore dovrebbe investire SULLA Notizia, tenendosi la proprietà intellettuale del “primo arrivato”: io ho la notizia io ho il potere (parafrasando). Dove la “notizia” è giustamente il “contenuto”. Con le software house bisogna trovare un accordo: l’editore potrebbe essere un “service” editoriale avanzato che vende contenuti di alta qualità a chi è in grado di aggregarli e gestirli a un livello superiore… fantascienza? può essere, più che altro questo quadro ha un grosso problema: gli editori italiani non hanno più da tempo il controllo dei propri contenuti: schiacciati tra marchette, riduzione del personale e un utilizzo massivo di service editoriali (e free lance)…