“L’informazione è generata dallo scambio di idee, oltre che dai fatti che avvengono, o meglio dall’alchimia fra queste due categorie. Ora, dato che molte delle conversazioni oggi avvengono via Internet, sono nati dei software e degli algoritmi appositi che “pescano” in automatico gli argomenti da sviluppare fra le richieste più frequentemente rivolte ai motori di ricerca, le parole predominanti nei social network, i temi più discussi nei forum. Una volta venuti in possesso di questi risultati, in tempi rapidissimi poi i responsabili delle content farm confezionano dei giornali online che, essendo basati esclusivamente sull’intreccio dei termini più in voga in quel momento sulla Rete, si limitano a identificare i temi che dovrebbe interessare il maggior numero di internauti.” (da La Repubblica Affari e Finanza di ieri).
Questo è il modo in cui funzionano le moderne “content farm”, nemesi apparente delle redazioni tradizionali. Dall’atelier alla fabbrica, verrebbe da dire mutuando una vecchia formula della sociologia. Ed effettivamente sono vere e proprie fabbriche, in grado di sfornare migliaia di articolo al giorno. C’è poco da dire, in termini di produttività redazionale il confronto è perso in partenza.
E la qualità? a pochi dollari la pagina, verrebbe da dire, non si può pretendere. D’altro canto le dimensioni della vastissima rete di collaboratori sembra garantire un certo grado di specializzazione, selezionato darwinianamente in base ai secchi parametri del numero di click, del tempo speso dall’utilizzatore sulla pagina, e udite udite, del click through rate di chi dalla pagina accede alle pubblicità, generando reddito. E’ “di qualità” quello che interessa, che ingaggia, che sfocia in attenzione pubblicitaria. Su keyword, come spiega la citazione, remunerative per definizione. Panem et circenses. Se piace è buono.
Anche un tecnofilo come me aggrotta ciglia e sopracciglia. E’ disperante che una funzione gloriosa come quella giornalistica venga elisa da modelli simili a una catena di montaggio. Gli indiani (quelli di Mumbai) stanno occupando anche questi spazi; costano così poco che si può far fare la stessa cosa a due o tre persone, scegliere il prodotto migliore e scartare gli altri.
D’altro canto, il crollo di introiti pubblicitari e ricavi da copie vendute ha da tempo devastato le strutture dei costi: ormai le redazioni tradizionali sono costrette sempre più ad arrangiarsi come possono, appiattendosi su comunicati stampa e notizie d’agenzia, rinunciando ad approfondimenti e verifiche e transigendo su tutto il resto; chi più, chi meno, per carità, ma su questo punto così come sulla produttività, molto prima di crisi e non crisi, c’era comunque molto da rivedere. La causa, a questo punto si confonde con l’effetto: cala la qualità della notizia scritta perché lo spazio dell’informazione di qualità è sempre più ridotto da queste anonime macchine da guerra, oppure le anonime macchine da guerra mangiano quota di mercato perché cala la qualità dell’informazione? Un marchettaro (nel senso di esperto di marketing) concluderebbe che il prodotto ha un valore intrinseco che il cliente non è disposto a pagare: si accontenta di molto meno.
Io di mio penso che qui confluiscano due fenomeni; il primo, destinato a durare, è che il mercato si disintermedia – se ho bisogno di notizie su un certo argomento, l’on-line mi permette di andare direttamente dall’esperto, dal produttore, dal tecnico etc. senza più bisogno della mediazione propria del modello editoriale. Il secondo effetto, temporaneo, è da ubriacatura; quando da giovane si scopre il vino, si prediligono le bottiglie “beverine”, di gusto facile, e se c’è in giro solo del vinaccio, si fa fatica a capire la differenza. Fuor di metafora, l’informazione era scarsa, adesso ce n’è tanta da riempire le nuvole (nel senso di cloud), e dà un po’ alla testa. Poi il bevitore matura, si raffina, e apprezza la qualità del vino selezionato, fatto con amore e invecchiato; qualità che tornerà prepotente a giustificare sé stessa, anche se con uno spazio che dovrà sempre contendere al vino fatto più in cantina che nel vigneto.
Il tema è interessantissimo e si presta a diverse letture secondo diverse prospettive; lo affrontava brillantemente Fabio Metitieri ne “Il grande inganno del Web 2.0”.
Iniziamo con una provocazione: la giornalista del NYT, premio Pulitzer, che copia da un blog, produce giornalismo di qualità?
Il problema della qualità dell’informazione esiste, sopratutto se si vuole evolvere il modello attuale basato sulla raccolta pubblicitaria in un modello in cui l’utente è disposto a pagare per il valore che riconosce. Oggi vi è un mercato per l’informazione di qualità, ma bisogna rimodellare strutture e mindset secondo criteri di maggiore flessibilità e agilità. L’introduzione del paywall su testate prestigiose, p.es. The Times, ha prodotto risultati interessanti: i ricavi generati dagli utenti sono cresciuti notevolmente, non riuscendo tuttavia a bilanciare la contrazione della raccolta pubblicitaria. Ecco il dilemma dell’editore: chi è oggi il cliente? Il “lettore” o l’inserzionista?
Troppi editori sono focalizzati nel massimizzare la raccolta pubblicitaria, dedicando poche energie a realizzare un prodotto eccellente per l’utente finale. Per vincere le sfide future del mercato dell’informazione bisognerà dimenticarsi gli inserzionisti e concentrarsi sui propri utenti-clienti: sicuramente modalità operative aliene a tanti editori che cercano di traghettare la loro attività in un mondo in cui costumi e abitudini sono profondamente modificati.
All’opposto dell’informazione di qualità abbiamo le content-farm, che non sono in sé degli abomini se con la loro attività producono valore per l’utente finale. Questa è la vera discriminante: se sono trappole per clic, da cui l’utente fugge perché inutili, oppure sintesi sistematiche di contenuti/tendenze che in qualche modo risultano efficacemente fruibili dall’utente finale.
Analogamente l’industria discografica ha dovuto abbandonare i fasti di un tempo, e la pirateria musicale ha un ruolo non trascurabile. Ma è pur vero che un new-comer come Jobs oggi gestisce quasi la metà dei ricavi delle vendite musicali; non guru di Sony, EMI, … ma un “geek” di un’azienda informatica! E nella forma reticolare e più meritocratica dell’informazione di oggi ci sono artisti che le major non avrebbero mai prodotto, che riscuotono grandi successi (avete mai sentito parlare della star nascente di Youtube Justin Bieber?) oppure successi più piccoli (fatti di alcune migliaia di fans sparsi per il globo che hanno acquistato la loro musica, secondo la logica della “long tail” cara a Chris Anderson).
La domanda nascosta tra questi post è se l’editoria di oggi sia sufficientemente resiliente per affrontare i nuovi scenari dell’informazione di qualità (dove la qualità è un attributo che definisce l’utente, non l’editore) e della disintermediazione in consolidamento (vedasi Why I’m self publishing).
In altre parole, quanti editori hanno il controllo di contenuti “must have”, originali e esclusivi?
I contenuti “must have” sono l’origine dell’informazione di qualità.
Ma quando li eroghiamo in un ambiente digitale possiamo tracciare i modelli comportamentali degli utenti e con questi arricchire i contenuti stessi di nuovi attributi (o anche creare “nuovi contenuti”, in una logica in cui l’utente è prosumer, contemporaneamente “produttore” e “consumatore” di contenuto).
Possiamo strutturarli con una logica non di “prodotto chiuso” ma di “piattaforma aperta” in cui gli utenti possono portare loro contributi: Zuckerberg in una recente intervista spiegava come il suo obiettivo primario non sia lo sviluppo e il potenziamento delle funzionalità di Facebook, quanto il perfezionamento di Facebook come piattaforma su cui utenti, partner, imprenditori possono costruire nuovi modelli di relazione, nuove interazioni, nuovi servizi… nuovi contenuti.
Se infine riusciamo a qualificare gli atomi del contenuto attraverso delle tassonomie che possono servire sistemi di ricerca semantici, possiamo riaggregare i contenuti in svariate forme, anzi l’utente stesso può riaggregarli a piacimento (trasformando il contenuto da lineare a reticolare) ed effettuare delle ricerche in cui non ottiene risultati ma risposte alle sue domande.
Qual è può essere quindi il ruolo dell’editore? Aggregare reti flessibili e distribuite che consentono l’accesso ad un vasto capitale umano, per la convergenza di risorse intellettuali finalizzate allo sviluppo dell’eccellenza?
Se, come sostiene il Cluetrain Manifesto, Internet abilita “conversazioni tra esseri umani che erano impossibili nell’era dei mass media”, allora forse il compito dell’editore di domani può assomigliare al giardiniere dell’ipertesto di Berstein: coltivare e crescere idee – creando sentieri tra esse, potando i cespugli non armonici e definendo chiaramente i confini – e adoperarsi per il benessere, l’interesse e l’abitabilità dell’informazione – creando contenuti che invitino i visitatori a rimanere, e che sono disegnati per attrarli e deliziarli, e soprattutto per invitarli a indugiare, esplorare e riflettere.
La scelta della qualita’ degli articoli ricalca quella tradizionale: piu’ vende -> piu’ e’ da selezionare. Oggi best seller non vuol dire necessariamente qualita’, share televisivo (media nella realta’ piu’ simile alla rete’) non vuol dire necessariamente qualita’.
Insomma in questi termini, niente di nuovo… E anche il buon vino non sempre e’ la meta di tutti… C’e’ sempre chi scegliera’ il “grande fratello” in tv o il sito delle boiate da mondo…
Concordo su tutto, ma c’è un aspetto inquietante che effettivamente credo non abbia soluzione. Vediamo se ho capito bene: i “markettari” dicono che la “gente” non è disposta a spendere per l’informazione, d’altro canto, quando sarà finita l'”ubriacatura contenutistica” (mi si passi il termine) i lettori più acuti sapranno scegliere e “forse” spenderanno per avere una informazione corretta. E’ vero che l’informazione aveva già bisogno di una bella rivisitazione ma d’altronde il modello pubblicitario ha condizionato la stampa da prima di internet. Da quando il costo copia non copre più i costi di produzione il mercato è falsato. Alcuni esempi resistono, ma a che prezzo? Per esempio, si dice che giornali come Il Fatto Quotidiano sopravvivano grazie agli abbonamenti e le donazioni. Per farlo hanno dovuto sposare una causa politica, in sostanza hanno sposato il loro sponsor, esattamente come se fosse un inserzionista, così da avere garantito un introito costante. Questo però funziona “solo” per la carta stampata, neanche le bandiere funzionano sull’on-line. Quindi il problema è sempre lo stesso: bisogna attingere dalla pubblicità, un vaso di pandora di cui si sono accorti anche molti altri soggetti, perché oltre le content farm (che alla fine svolgono un ruolo diciamo “editoriale”) ci sono i mail server, le applicazioni social, ma anche il settore dei videogames, fino alle aziende stesse, come ho scritto un po’ di tempo fa. Perché se un colosso di un settore può pensare di realizzare campagne di coomarketing sul suo sito e magari farsi pagare per questo. Quindi il “vasone” dell’editoria che fu oggi è un vasino da notte…
Io non credo che si possa guardare al prodotto vino per trovare l’amante dell’informazione di domani. Oggi è più l’appassionato di musica il paragone ideale che il nostro settore. L’appassionato di musica che oggi spende per ascoltare il suo idolo dal vivo e non per la sua musica su supporto digitale. Una tragedia per le case discografiche, che sempre più vivono sulla vendita di royalties a pacchetto per utenti professionali, leggi produttori di film o associazioni statali quali la Siae. Forse il modello di business dell’editoria è quello di avere un associazione nazionale dei contenuti che si occupi della rivendita, ma io ci credo poco, così come credo che l’editore, come intermediario sia in una posizione davvero difficile. Forse si salverà se saprà porsi come un partner affidabile dell’utente, perché è vero che le Content farm sfornano quintali di news sull’emozione del momento, ma il lettore non avrà il tempo per leggerle, quindi sceglierà il contenitore che meglio saprà proporgli argomenti interessanti. Per quanto riguarda il clic trough.. beh, forse è lì la vera ubriacatura, perché, come iniziano a notare molti “markettari” non è necessariamente portando i clienti sul proprio sito che si genera l’awarness del proprio brand.
Peraltro il revenue model di queste content farm è apparentemente fragile e instabile. Alla vigilia della IPO di Demand Media si era parlato di una rivisitazione dell’algoritmo di Google che avrebbe minato le fondamenta dell’impresa; e funzionano solo su volumi estremamente elevati, il che sarà un problema quando altri vorranno copiare lo stesso modello.