… ma qualche animale è più uguale degli altri. Così George Orwell, nel semplice, immortale capolavoro “La fattoria degli animali”.
Tutte le riviste sono uguali. Qualcuna sarà anche più uguale delle altre, ma lasciatemi fare qualche forzatura, altrimenti togliamo sale all’articolo. Hanno tutte la stessa struttura (copertina, seconda, terza, quarta di copertina, blocco pubblicitario iniziale, indice su due pagine non seguenti per permettere la doppia posizione speciale, editoriale, news dal settore, etc.); tutte lo stesso formato, che cambia a seconda dei progressi e delle relative opportunità date dalle macchine di stampa; tutte le stesse convenzioni grafiche (box, rimandi, tabelle) … potrei continuare, mi fermo e dico che alla fine quello che cambia è “solo” il contenuto. Neanche tanto però, perché gli argomenti trattati da riviste concorrenti sono spesso gli stessi, e se guardiamo ai quotidiani, lunga vita all’ANSA! Bah, viste una viste tutte.
Tutto questo però ha un senso: medium conosciuto, mercato stabile, abitudini di lettura consolidate, la ricerca dell’originalità rischierebbe di incontrare solo il disorientamento del lettore. E la differenza si fa proprio sui contenuti e sulla loro qualità. Non è così anche nello sport? Le regole del calcio sono quelle, il modo di giocare molto simile tra squadre anche diverse, però la differenza in campo si vede (questo discorso mi fa male, non so perché).
E nell’editoria digitale? Il web ha completamente invertito il tiro: è il visitatore che si fa il suo percorso, all’interno di un sistema aperto, atomico, non sequenziale; pochissime speranze di imporre un percorso pre definito dall’editore. Con il tablet si apre apparentemente una possibilità di ritorno al futuro. Il format infatti è chiuso (è l’editore che sceglie cosa ci sta dentro) e tendenzialmente sequenziale, vale a dire che è possibile saltare da una parte all’altra, ma poco naturale, mentre rimane più semplice seguire il percorso definito. Nulla di più sbagliato, a mio avviso: la digitalizzazione dei contenuti permette modalità di fruizione estremamente differenziate, che vanno ritagliate (e qui sta il punto) sulle esigenze dello specifico pubblico. Ad esempio, la possibilità di affiancare testo a immagini, audio, video, etc. va differenziata a seconda dell’argomento: gioco, sport, battaglia navale, quadri elettrici …
One size doesn’t fit all. E all’editore tocca di andare a scoprire quello che il lettore davvero vuole, e come lo vuole. Faticoso? E’ la stampa (digitale), bellezza.
Questo post nasce da una chiacchierata con gli amici di digitando; di editoria ne capiscono, tradizionale e innovativa, e nati da pochisssimo applicano questa visione ai problemi dei loro clienti.
È un po’ di giorni che ripenso a questo post. Il tema è davvero interessante e non so se riuscirò e mettere in maniera chiara tutte le cose mi piacerebbe condividere sull’argomento, perché sono molte e non vorrei essere confusionario. In ogni caso, questa prima premessa mi serve per dire che il commento sarà lungo e quindi mettetevi l’anima in pace.
Iniziamo con la frase che mi è piaciuta di più: “One size doesn’t fit all”. È poi così vero? Per capirlo ho fatto il seguente ragionamento: quali sono gli asset delle pubblicazioni cartacee? E quali sono gli elementi fondanti dei siti internet?
Partiamo dai primi e iniziamo subito con il restringere il campo ai magazine (tanto di quello parliamo su questo blog e con un po’ di lavoro si arriva anche a libri, illustrati e quant’altro). Ogni editore ha alcuni asset interni e alcune esternalizzazioni. Diciamo che il modello più diffuso oggi è che l’editore mantiene interno il controllo sulla produzione dei contenuti, sulla distribuzione (che può tradursi nella gestione del distributore o nel possesso di una banca dati per la postalizzazione), sull’organizzazione, dei contenuti sugli abbonamenti e, in alcuni casi, anche sulla vendita degli spazi pubblicitari (dico in alcuni casi perché molte riviste hanno agenzie apposite). L’asset principale però è un altro, e non è semplice da quantificare: la popolarità della testata (o l’autorevolezza, insomma il valore del brand). Questo senza contare immobilizzazioni dipendenti e il resto. Quindi cosa ha l’editore realmente? Il capitale. Il resto: macchine da stampa, carta, edicole, furgoni di consegna
Se guardiamo invece i modelli on-line che hanno avuto successo fino ad oggi (e.g. Facebook, Twitter, Huffington Post, tanto per rimanere negli esempi citati nei precedenti commenti) cosa troviamo? Faccio una mia personalissima classifica: al primo posto metterei server e banda, unici asset che garantiscono a questi giganti di offrire un servizio accattivante, poi metterei, come per le riviste la popolarità (diciamo anche popolarità, banda e server non sono imprescindibili, perché senza l’uno gli altri sono inutili). Il controllo sulla produzione dei contenuti? Non fondamentale. Mentre è fondamentale la vendita di spazi pubblicitari e la gestione delle banche dati, in questo caso non di distribuzione ma dei visitatori (che poi è un po’ la stessa cosa, perché dalla distribuzione, anche nelle riviste cartacee, si evince il costo contatto e quindi il costo dell’inserzione pubblicitaria).
Fatte queste due considerazioni, emergono secondo me almeno due fattori importanti. Il primo è che per avere una buona popolarità on-line bisogna investire parecchio in almeno due direzioni: infrastrutture e marketing. Dove le infrastrutture sono prettamente fisiche e marketing molto concettuale. La seconda è che, nessuna delle major editoriali ha fatto questo passo e per questo si è fatta rubare molto terreno dalle telco e da altri investitori più accorti.
Per capirlo basta fare un giochino semplice su alcuni dati. Se supponiamo di voler lanciare un nuovo magazine quanto spendiamo? Entro nello specifico di qualcosa che conosco bene. Poniamo che io voglia fare una rivista iperspecializzata in uno specifico settore. Teniamoci bassi, voglio partire con 5.000 copie. Facciamo due conti pensando in piccolo, non voglio rischiare troppo su una nuova iniziativa. Allora, diciamo che per partire con un business plan di almeno un paio di anni devo prevedere almeno un direttore e un dipendente, diciamo che prendo due mezze calzette e riesco a stare negli 60.000 l’anno di costo azienda (più o meno 5/6.000 euro a numero a seconda che io decida di fare 10 o 12 uscite). Poi mettiamo un 10.000 euro di stampa e carta a numero (sono solo 5.000 copie) e circa 3.000 euro di spedizione postale o distribuzione mirata a edicole che mi interessano. E infine i costi di borderò, che, siccome sono un editore taccagno e siccome già pago un redatto re interno e un direttore, voglio tenere davvero bassi e metto 2.000 a numero, il direttore si arrangi. Solo per fare un numero zero abbiamo impiegato circa 20.000 euro . A questa cifra dovremmo poi aggiungere la partecipazione a qualche fiera per far conoscere il prodotto, un paio di eventi di lancio, l’acquisto o la creazione di una banca dati di distribuzione, l’impegno commerciale per la promozione ai potenziali inserzionisti e i costi fissi che non ho calcolato ma che comunque ci sono (però io sono un editore vecchia maniera e in fondo quei costi già li pago comunque, quindi non li considero).
Cosa voglio dimostrare? Che per fare una rivista veramente miserrima, che mi porta 5.000 contatti a numero, spendo almeno (proprio per stare tranquillo) 20.000 euro a uscita. In un anno ho contattato 50.000 persone con la mia rivista e ho speso 200.000 euro. Certo, ho avuto dei ricavi, ma diciamo che se il mio break even era a due anni sono sulle spese per tutto questo periodo.
Ora vediamo il caso di un progetto on-line, meno conoscito e meno noto. Quanto spende l’editore medio? Diciamo che è un editore già avanti rispetto alla media e vuole lanciare un nuovo progetto editoriale on-line. Acquisto di un server dedicato on-line? Circa 400 euro… L’ANNO! Diciamo che ne prende due per avere un back-up e una banda decente per partire. Poi investe in un direttore editoriale che fa anche da coordinatore e segretario, circa 25.000 euro l’anno perché è onesto e l’ha assunto a tempo indeterminato a 1.200 euro netti al mese. Borderò? Circa 1.000 euro/mese, diciamo che sono onesto e pago i miei collaboratori 8/10 euro a pezzo per avere circa un centinaio di news mese. Poi mettiamo che assumo anche un informatico che mi gestisce la struttura del sito, delle newsletter, l’inserimento di eventuali banner eccetera. Risulatato, circa 70.000 euro l’anno. Cui vanno aggiunti i costi per il lancio, la partecipazione alle fiere, eventi eccetera. Con questo investimento (che per la verità è molto più alto di quanto investe un qualunque editore, ma che in realtà è minimo) posso tranquillamente puntare, senza fare molto, ad avere 20/30.000 visitatori/mese REALI!. È una miseria, ma già molto più di quanto fanno tanti siti di piccoli editori.
Ma veniamo ai big player. Quanto ha investito Google per diventare quello che è? E Facebook? E Arianna Huffington? Se qualcuno ancora pensa che si sia trattato di quattro soldi sbaglia di grosso. Forse le idee sono nate in un garage, o in un stanza di college, ma per arrivare a diventare quello che sono c’è voluto un grande sforzo. Per esempio. Google non avrebbe mai potuto competere con Altavista se non avesse avuto, all’inizio della sua attività una consistente iniezione di capitale per l’acquisto di server farm proprietarie che rendessero efficace il servizio. Stessa cosa per Facebook, che per gestire banche dati di dimensioni enormi ha server in tutto il mondo e connessioni garantite (stessa cosa per Twitter e per l’Huffington Post, dove più che di server bisogna parlare di migliaia di blogger pagati). Il marketing è stato pressante in tutte le fasi di consolidamento del poggetto, perché tutti i media tradizionali sono stati spinti a occuparsi di questi “fenomeni” e si tratta di una attività costosa.
Poi c’è l’altra faccia della medaglia. Quanto guadagnano questi “mostri”? L’Ebidta di Facebook nel 2008 è stato di circa quello di Google è stato molto meglio, ma anche gli investimenti sono stati importanti ( <a href=”http://finance.yahoo.com/q/ks?s=GOOG” title=”basta vedere i dati finanziari” ).
e così via per le altre start-up, come Twitter eccetera.
E qui si entra in un secondo discorso altrettanto importante. Perché i venture capitalist investono tanto a fronte di rientri incerti e non sempre sicuri? Io credo per due motivi. Il primo è perché il mondo dell'editoria digitale si regge su una grande bolla speculativa, per cui se tu hai un bacino di utenza di milioni di persone, anche se il cash flow è negativo, la percezione dei mercati è che una simile attivtià rivesta un ruolo cruciale e il suo valore è intrinsecamente più alto della sua redditività. Quindi io investo per poi rivendere le quote quando avrò milioni di visitatori. L'altro aspetto è più delicato e ha più a che fare con l'editoria. Per cui se oggi Generali è in RCS (tanto per restare sull'attualità) no è solo per il guadagno, ma perché avere una parte di controllo dell'informazione è un asset importante per molte altre attività (non ultima influenzare proprio gli stessi mercati che determinano il valore del tuo investimento). Ma questo è un altro capitolo e sono già stato davvero lungo in questo commento.
Infatti NewsCorp ha acquisito con investimenti cospicui ma non ha investito internamente le medesime risorse! :)) E se la soluzione non fosse transiatre dal trazionale al nuovo? Sono rimasto colpito da un recente report di Outsell (“Scientific, Technical & Medical Information: 2010 Market Forecast and Trends Report”) dove si diceva:
Remember, the Past No Longer Predicts the Future
Crispin Davies used the success of ScienceDirect to convince the markets that the conversion from print to digital could be a smooth (and profitable) process. But that was yesterday. Print to digital was the simple part. To build value going forward will be much more difficult and will require the industry to put scale-ability to one side and embrace innovation.
Ad ogni modo, a mio modestissimo avviso, parlarne e confrontarsi è il primo passo! 🙂
Vero! L’aspetto sorprendente è che la maggior parte di coloro che ha rivoluzionato i costumi dei media negli ultimi anni non proveniva dall’establishment: dai giovani Brin e Page (Google) e Zuckerberg (Facebook) alla meno giovane Huffington (HuffingtonPost).
Come mai le idee rivoluzionarie non vengono dalle grosse corporation dei media?
Possibile che aziende come News Corp, con ricavi per 33mld di dollari, non abbiano le risorse per creare killer app, innovazioni dirompenti?
Forse la problematica di fondo è la medesima che oggi ci fa ancora interagire sull’iPad con contenuti dalla fruizione sequenziale che non si discostano tanto da PDF con qualche oggetto interattivo.
News Corp si è comprato MySpace quando era il re dei social network, e guarda com’è finita… Insisto però su un punto: non è facile. Come insegna il principio di indeterminazione di Heisenberg, in certi casi la soluzione non può venire dall’interno: cambia il mondo e le nuove tecnologie che avanzano sono disruptive. O forse la soluzione per transitare gli asset propri dei media tradizionali nel “nuovo mondo” c’è e nessuno l’ha ancora trovata? Potremmo trovarla suq uesto blog 😉
Ciao Alessandro
Da dove nasce a tuo avviso la sequenzialità dei magazine per tablet? Dalla ipotetica difficoltà del lettore verso una fruizione non sequenziale o piuttosto dall’incapacità degli autori/creatori di pensare dei media reticolari/ipertestuali?
Le grandi app “innovative” per iPad che ho testato – Novà, Virgin Project, NewsCorp TheDiary – offrono un’esperienza innovativa solo in qualche contenuto ipermediale e con una moderata interattività (contenuti ipermediali dall’elevato costo di produzione e dal valore percepito per l’utente finale di qualche secondo).
Come utente sono tediato e affaticato dalla sequenzialità di questi magazine per tablet confrontata alla velocità e alla libertà del web.
Ancora una volta ci siamo posti davanti ad una nuova piattaforma con l’ansia di fare qualche app con comunicato stampa che ci posizionasse come innovativi, ma senza una piena consapevolezza dei nuovi modelli di business e senza esplorare realmente nuovi format di contenuto; ma forse l’idea di riciclare sull’iPad le riviste cartacee salvaguarderà il posto – nel breve/medio termine – a schiere di giornalisti e publishers che non usano facebook e youtube e non leggono blog.
Gli editori di oggi sono ancora troppo grandi, troppo lenti, appesantiti da troppe competenze superate per sfidare le convenzioni, innovare ed ottenere successo: sarà per questo motivo che una ragazza di 26 anni, Amanda Hocking, senza alle spalle grandi editori è leader nella classifica delle vendite dei libri elettronici (12 romanzi su Kindle, 100.000 libri elettronici venduti)?
L.
Ciao Ludovico. Cosa si possa o non si possa fare con i tablet (e con gli smartphone, peraltro; è chiaro che lo schermo è più piccolo, ma il device è davvero portatile, sempre con noi, e per questo a mio avviso offre maggiori potenzialità applicative) è ancora tutto da vedere. E’ chiaro che, come sottolinei, prevalgono i modelli tradizionali. QUando è nata la tv, il telegiornale non era altro che un giornale radio dove si vedeva il giornalista che leggeva. Quando è nato il web, i giornali on line non erano altro che le versioni digitali degli esemplari cartacei; lo sono ancora, per la maggior parte, e c’è chi ancora resta contento di schiaffare il pdf in home page. Sarà la stessa cosa per i nuovi strumenti? Se il buongiorno si vede dal mattino ..
Da cosa dipende questo? E’ chiaro che non è facile, perché i modelli di successo sono pochissimi e non è che sono tutti insipienti. Un fattore importante è l’estema frammentazione del settore editoriale, che è un settore piccolo dove i grandi non sono mai enormi. Contiamo poi anche il tradizionalismo di chi decide: quanti AD si fanno stampare le email dalla segretaria?
Il concetto di sequenzialità, per come lo intendo io , è riferito a una lettura tendenzialmente dall’inizio alla fine, tipo libro per intenderci. Il lettore può anche saltare pagine e andare subito alla cronaca sportiva, ma il medium è comunque pensato come successione di argomenti, a partire dalla prima pagina. Non così il web: l’home page conta poco, perché l’utilizzatore cerca un atomo informativo su Google, lo trova (o non lo trova) sul sito dell’editore, e poi rimbalza via. Quello che ho visto io per tablet assomiglia al modello carta; anche se stanno già nascendo cose diverse, à la flipboard, che però tipicamente non sono fatti da editori ma da gente che pensa il mezzo dall’interno, e vede la soluzione dell’esigenza infomrativa da un punto di vista laterale.